martedì 14 giugno 2016

René Char



Da Feuillets d’Hypnos [Fogli d’Hypnos]

Siamo divisi tra la brama di conoscere
e la disperazione di aver conosciuto.
La spina non rinuncia al suo morso,
noi alla nostra speranza. 
 
Da À une sérénité crispée [A una serenità contratta]
 
Ho cercato nel mio inchiostro
ciò che non poteva essere chiesto:
la macchia di purezza
al di là della scrittura imbrattata. 

Da La bibliothèque est en feu [La biblioteca è in fiamme]

Talvolta il profilo di un puledro,
di un bambino in lontananza,
s’avvicina a esplorare il mio sguardo,
scavalca il muro del mio timore.
E’ allora che, sotto gli alberi,
riprende a mormorare
la sorgente.




venerdì 10 giugno 2016

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino


C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

Tratto da Romanzi e racconti volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo
Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti".

mercoledì 8 giugno 2016

Marguerite Yourcenar







È uno sforzo, una sofferenza, lo scrivere?
No, è un lavoro, ma è anche quasi un gioco, e una gioia, perché l’essenziale non è la
scrittura, è la visione. Ho sempre scritto i miei libri col pensiero, prima di trascriverli sulla carta
, e a volte li ho perfino dimenticati per dieci anni prima di dar loro una forma scritta. La scena tra Zénon e il canonico, ad esempio, io l’ho vista (potrei quasi dire che l’ho scritta nella mia testa) ascoltando musica, Bach mi pare, in casa di un amico, un pomeriggio del 1954 o giù di lì. Sono uscita da quella casa dicendo a me stessa: “Non ho né tempo né modo di scrivere questa cosa adesso, e magari non l’avrò per mesi, o addirittura per anni. Me ne ricorderò o non me ne ricorderò...vedremo” E poi, a distanza di anni, tutto mi è apparso davanti. Nel 1957 – ricordo esattamente la data per via di un viaggio che me la richiama alla memoria – ero andata a fare delle conferenze in Canada; non stavo molto bene, e avevo dovuto prendere un treno in una stazioncina sperduta, da qualche parte negli Stati Uniti. Il treno partiva intorno alle tre del mattino, e mi sono fatta dare una camera in una specie di locanda. Ricordo che faceva freddo,e che mi sono distesa sul letto senza disfarlo. Durante quelle tre ore, ho scritto, col pensiero, tutta la lunga novella di La mort conduit l’attelage. Questo avveniva nel 1957. E ho ripreso in mano il progetto solo l’anno scorso. Me ne sono ricordata come di una storia che mi sarebbe stata raccontata, come se il flusso ricominciasse a scorrere dopo essere stato congelato per più di vent’anni.
Questo rientra nelle sue abitudini?
Mi succede abbastanza spesso, incrocio stanze un po’ fuori dal comune. Forse, dipende da
una sorta di abbandono delle abitudini, di rottura della routine. Detto questo, bisogna dire che
anche le abitudini servono alla creazione letteraria, perché nelle abitudini c’è un che di
rituale. Alzarsi la mattina, scendere ad accendere il fuoco in cucina, dar da mangiare agli uccelli,
guardare il sole dalla terrazza, sono altrettanti riti che finiscono col diventare assolutamente
impersonali.
Ci sono anche scrittori che si mettono ogni mattina alla scrivania, all’ora stabilita, e
aspettano che venga l’ispirazione. È il suo caso?
Quando mi metto alla scrivania so già esattamente quello che devo fare, perché ce l’ho tutto
scritto nel pensiero. Naturalmente la scrittura dà luogo a una sorta di chiaroscuro; mette
in risalto errori o dà adito a nuove scoperte ma i fatti, le idee sono già là. Per un saggio critico, il modo di procedere è molto diverso. Si può lavorare continuando per mesi e mesi a ricominciare da capo. Il mestiere dello scrittore è un’arte, o meglio un artigianato, e il metodo dipende un po’
dalle circostanze. A volte prendo un blocco e butto giù il mio testo con una scrittura che sfortunatamente diventa illeggibile in capo a quattro o cinque giorni, che in qualche modo
appassisce come i fiori. Ma succede anche che vada dritta alla macchina da scrivere e batta
una prima versione. In ambedue i casi, per ogni frase, vado di slancio; successivamente,
cancello, scelgo la frase che preferisco. Lavoro anche con forbici e colla, ma non sempre. E se
le piacciono le piccole manie tipiche dello scrittore, gliene posso citare una:
alla terza o quarta revisione, armata di matita, rileggo il mio testo, già quasi a posto, e
tolgo tutto quello che può essere tolto, tutto ciò che mi pare inutile. E qui, esulto.
Scrivo a piè di pagina: abolite sette parole, abolite dieci parole...Sono felicissima: ho soppresso
l’inutile.
A che punto la versione le sembra definitiva?
Quanto sento di aver detto tutto quello che potevo dire, e di averlo detto nel miglior
modo possibile. A questo punto, ho la consapevolezza che la faccenda è chiusa, finita.
È come per il pane: c’è un momento in cui si sente che non bisogna più impastare. Si prova
allora un sentimento di stupore – che provo del resto per tutto, non solo per i libri – la
soddisfazione e la sorpresa di essere riuscita a fare quella cosa, di avercela fatta, di esserne
venuta a capo. Suppongo che sia la stessa sensazione dello sportivo quando tocca la meta.
Non era sicuro di arrivarci.
Ma il metodo di lavoro non dipende dai libri stessi, dai loro soggetti, o dalla forma
scelta?
Certamente. Il metodo varia ogni volta nella misura in cui ogni volta si tratta di un enigma
diverso da risolvere. Lo dicono anche i pittori: ogni ritratto pone un nuovo problema. Perfino Rembrandt doveva esitare di fronte ad un nuovo modello da dipingere. E, sulla tela, il modello appariva essere e individuo al tempo stesso, borghese del XVII secolo, unico fin nelle verruche, e contemporaneamente figura totale, emblema di umanità. Il che non impediva a Rembrandt di essere ogni volta Rembrandt, perché aveva il suo stile peculiare
(Conversazioni tra Matthieu Galey e MargueriteYourcenar da: “Ad occhi aperti”-Bompiani)