L'ultimo sondaggio condotto nel marzo
del 2013 dall'Unione Europeo rivela che l'Ucraina è il paese con il record europeo di diffusione della lettura (l'82% della popolazione legge almeno 20 libri l'anno, mentre in Italia il 46% non legge nulla oppure un solo libro). La gente mette da parte i soldi per andare ai concerti di musica, ai recital dei poeti. Nella scala dei loro valori, al primo
posto c'è la musica, al secondo l'amore, al terzo la letteratura, al quarto la
famiglia, al quinto l'espressione individuale, al sesto il sesso libero. Il
danaro si trova all'undicesimo posto, mentre in Italia è saldamente al primo
posto nella scala dei valori con la percentuale del 72%, seguito dal cibo, dai
viaggi, dalla notorietà, dal lavoro fisso, dalla visibilità vip.
giovedì 30 gennaio 2014
mercoledì 29 gennaio 2014
Etty Hillesum : ancora una pagina sulle PAROLE
- "Dentro di me c’è una melodia che a volte
vorrebbe tanto essere tradotta in parole sue. Ma per la mia repressione,
mancanza di fiducia, pigrizia e non so che altro, rimane soffocata e
nascosta. A volte mi svuota completamente. E poi mi colma di nuovo di una
musica dolce e malinconica.
A volte vorrei rifugiarmi con tutto quel che ho dentro in un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare. È proprio così. Io sto cercando un tetto che mi ripari ma dovrò costruirmi una casa, pietra su pietra. E così ognuno cerca una casa, un rifugio per sé. E io mi cerco sempre un paio di parole.
A volte mi sembra che ogni parola che viene detta, e ogni gesto che viene fatto, accrescano il grande equivoco. Allora vorrei sprofondarmi in un gran silenzio e vorrei anche imporre questo silenzio agli altri. Sì, a volte qualunque parola accresce i malintesi su questa terra troppo loquace."
Etty Hillesum, Diario 1941-1943
martedì 28 gennaio 2014
Cechov, Anton Pavlovic
L'odore dell'inverno
Il
tempo dapprincipio fu bello,
calmo. Schiamazzavano i
tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo
faceva un brusio, come se
soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e
nell'aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece
buio e soffiò da oriente un vento
freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono
degli aghetti di ghiaccio.
Il bosco divenne squallido, solitario.
Si senti l'odore dell'inverno.
calmo. Schiamazzavano i
tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo
faceva un brusio, come se
soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e
nell'aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece
buio e soffiò da oriente un vento
freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono
degli aghetti di ghiaccio.
Il bosco divenne squallido, solitario.
Si senti l'odore dell'inverno.
lunedì 27 gennaio 2014
Francesco Cangiullo
Scrittore e giornalista italiano
(Napoli 1888-Livorno 1977). Collaboratore di Lacerba (rivista di letteratura e arte
fondata nel 1913 da G. Papini e da A. Soffici in contrapposizione alla Voce e rimasta in vita fino al 1915) e tra i
più fervidi seguaci del movimento futurista: Propugnò, con F. T. Marinetti, il
"teatro a sorpresa". Al teatro futurista diede Dieci
sintesi teatrali (1914) e l'atto grottesco Radioscopia (1917), in
collaborazione con E. Petrolini.
Poesia pentagrammata
Poesia pentagrammata II
domenica 26 gennaio 2014
La leggenda dei giorni della merla
Con il 29 gennaio cominciano i tre giorni della merla, considerati i più rigidi dell'anno.
Ma chi è mai questa merla che porta il freddo?
Si narra che tanto tempo fa, quando i merli erano bianchi, una famigliola viveva su una quercia di una villa soffrendo a ogni inverno un freddo tremendo, nonostante la mamma merla supplicasse messer Gennaio di essere più mite. Ma il sadico, contento di vederli soffrire, rispondeva monotonamente che quello era il suo mestiere.
Un anno la merla cambiò tattica: se ne stette nascosta con tutta la famiglia in modo che Gennaio non vedendola, si scordasse di tormentarla. Alla fine del mese, che allora era il più breve dell'anno con soli ventotto giorni, la merla uscì fuori al sole e non riuscì a nascondere la soddisfazione di aver gabbato messer Gennaio deridendolo.
Ma non aveva fatto i conti con quell'essere vendicativo che chiese tre giorni a Febbraio e li trasformò
in una ghiacciaia facendo scendere la temperatura a diversi gradi sotto zero.
La neve ed il gelo colpirono la famigliola dei merli che rischiarono di congelare.
Quando mamma merla vide uscire del fumo da un camino della villa decise di rifugiarsi su quel tepore insieme ai figli; ma il fumo impregnò talmente le loro penne che la famigliola con i discendenti diventò per sempre nera come la pece e quel periodo fu ribattezzato "i giorni della merla".
Liberamente tratto da Lunario - A. Cattabiani
Virginia Wolf : sulle parole
Il potere di suggestione è una delle proprietà più misteriose che hanno le parole.
Chiunque abbia mai scritto una frase deve essere cosciente, o almeno in parte
cosciente, di questo. Le parole sono per loro stessa natura piene di echi, di ricordi, di associazioni.
Non si può usare una parola nuovissima in una lingua antica per il fatto ovvio e al tempo stesso misterioso che una parola non è una singola entità separata, ma appartiene ad altre parole. Non è ancora una parola finché non entra a far parte di una frase. Associare parole nuove a parole vecchie è sempre fatale nella costruzione di una frase. Per usare parole nuove in modo appropriato bisognerebbe inventare una lingua nuova. Come si possono organizzare parole antiche in nuovo ordine in modo da farle sopravvivere, in modo che producano bellezza e dicano la verità? Questo è il vero problema.
Non si può usare una parola nuovissima in una lingua antica per il fatto ovvio e al tempo stesso misterioso che una parola non è una singola entità separata, ma appartiene ad altre parole. Non è ancora una parola finché non entra a far parte di una frase. Associare parole nuove a parole vecchie è sempre fatale nella costruzione di una frase. Per usare parole nuove in modo appropriato bisognerebbe inventare una lingua nuova. Come si possono organizzare parole antiche in nuovo ordine in modo da farle sopravvivere, in modo che producano bellezza e dicano la verità? Questo è il vero problema.
Pensate cosa significherebbe sapere insegnare, e quindi potere imparare l’arte dello scrivere. In questo modo ogni libro, ogni
quotidiano direbbe la verità, e sarebbe capace di riprodurre la bellezza. Ma
sembra che ci siano degli ostacoli su questa strada, e non pochi impacci
nell’insegnare parole. Perché, anche se in questo momento un centinaio di
professori stanno tenendo conferenze sulla letteratura del passato, e almeno un
centinaio di critici recensiscono letteratura contemporanea, e centinaia e centinaia
di giovani, uomini e donne, stanno superando esami di letteratura inglese col
massimo dei voti, credete che questo basti a farci scrivere meglio, oppure a
farci leggere e scrivere meglio di quanto si facesse quattrocento anni fa,
quando non c’era nessuno che facesse conferenze, né critiche, né lezioni?
Certo, possiamo sempre prendere le
parole, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei
dizionari; vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di
maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando di più ne avreste
bisogno. Eppure il dizionario esiste; è lì, a vostra disposizione, ci sono
mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico.
Ma
potete davvero usarle?
No, perché le parole non vivono nei
dizionari, vivono nella mente. La questione è solo di trovare le parole giuste
e di metterle nell’ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non vivono
nei dizionari, ma nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani e
svariati, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là,
innamorandosi e accoppiandosi. È indubbio che siano molto meno limitate di noi
dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con
le più comuni. Parole
inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in
mente di farlo.
Di fatto, quantomeno indaghiamo nel
passato della nostra cara madrelingua inglese, tanto meglio sarà per la
reputazione di quella Signora. Perché è diventata una di quelle donne che
passano di continuo da una persona all’altra. Per questo, imporre regole a tali
impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Al massimo possiamo dire di loro che
sembrano preferire la gente che sente e pensa prima di usarle, ma non deve
essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono
molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta
della loro purezza o della loro impurità.
Le
parole sono anche molto democratiche.
Pensano che una parola sia buona come
un’altra; che le parole rozze valgano quanto quelle educate; che quelle incolte
siano uguali a quelle colte, non esistono classi o titoli di merito nella loro
società. E
non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in
paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. Odiano essere utili; odiano
dover far soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa che
imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte
della loro natura.
E forse è proprio questa la loro
caratteristica più sorprendente: il loro bisogno di
cambiare. Perché la
verità che cercano di affermare ha tante facce; e proprio perché loro stesse
sono molto sfaccettate riescono a comunicarla, illuminando ora un volto, ora un
altro. Per questo possono significare una cosa per una persona, un’altra cosa
per un’altra. Ed è proprio grazie a questa loro complessità che esse sopravvivono.
Allora, forse, uno dei motivi per cui oggi non abbiamo grandi poeti, grandi
romanzieri o grandi critici è che neghiamo alle parole la loro libertà.
Le inchiodiamo a un unico significato, al loro significato utile; a quello che
ci fa prendere un treno e superare gli esami. E quando le parole vengono
inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono. Senza
dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma
vogliono anche che ci concediamo una pausa; che diventiamo incoscienti. Il
nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
«Craftsmanship»,
Listener, 5 maggio 1937
Tratto da : scripta-volant.
venerdì 24 gennaio 2014
DEREK WALCOTT
Poeta e scrittore antillano
(Castries, Saint Lucia, 1930). Di padre inglese ma discendente in linea materna
della tribù Ashanti, laureatosi in letteratura inglese
all'Università delle Antille, in Giamaica, dal 1960 ha fissato la propria
residenza a Trinidad e Tobago, dove lavora come critico, dirigendo inoltre il
Laboratorio Teatrale. Insegnante di arte drammatica e letteratura
all'Università di Boston, pur essendo anche scrittore di prosa e autore
teatrale si è dedicato essenzialmente alla poesia, alla quale riconosce un
valore di forma espressiva universale e totale. Anglofono in un'isola a maggioranza francofona, ha aderito a un'identità
pluriculturale, creando un proprio linguaggio ampio e sonoro che narra il
vagabondare dello spirito fra l'ansia della scoperta e la nostalgia di porti
sicuri. Nella sua vasta produzione poetica, per la quale nel 1992 Walcott è
stato insignito del premio Nobel per la letteratura, il mosaico di elementi
contraddittori riflesso della sua vita e della sua formazione culturale si
fonde, dando vita a una poesia torrenziale, ricca di riferimenti colti, che
ricorre spesso all'evocazione di immagini, in un rapporto di fondamentale
importanza con i luoghi e i paesaggi dell'amata terra antillana.
AMORE DOPO AMORE
Tempo
verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e
dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per
tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le
fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.
[da Mappa del nuovo
Mondo]
giovedì 23 gennaio 2014
Carlo Betocchi
Carlo Betocchi
nasce il 23 maggio 1899 a
Torino, da padre ferrarese e madre toscana, muore a Bordighera (Imperia) il 25
maggio 1986. Fin da bambino (1906) si trasferisce a Firenze al seguito del
padre ferroviere. Studia con Piero Bargellini all'Istituto Tecnico Fiorentino,
dove nel 1915 consegue il diploma di agronomo. Frequenta poi la Scuola Ufficiali
di Parma, nel 1917 viene inviato al fronte e partecipa alla resistenza sul
Piave, quindi nel 1919 va volontario nella guerra di Libia. Al rientro lavora
come geometra nelle costruzioni stradali. Negli anni seguenti si sposta in
Francia per lavoro e poi in diverse località dell'Italia centro-settentrionale.
Dal 1928 al 1938 risiede a Firenze. Autodidatta,
ma coltissimo, comincia a frequentare i circoli letterari toscani. Insieme a
Piero Bargellini e Nicola Lisi collabora al “ Calendario
dei pensieri e delle pratiche solari” . Il 26
maggio 1929, sempre con Bargellini e Lisi, fu tra i cattolici che dettero vita
alla rivista “ Il Frontespizio” , che ospitò gran parte dei poeti così detti ermetici (tra cui Mario
Luzi, Carlo Bo, Leonardo Sinisgalli, Vittorio Sereni, Giancarlo Vigorelli,
Alessandro Parronchi, Oreste Macrì), che ricercavano la poesia 'pura', al di là
della logicità e del senso temporale, utilizzando fortemente metafore e
analogie. Come poeta segue all'inizio le
orme di Papini, ma, lontano da sperimentalismi e neo-avanguardie, Betocchi
percorre un cammino personale poetico che lo porta “faccia a faccia con la vita
e con i suoi confini”. La partitura poetica, che mostra forse una certa
noncuranza formale, nasce da un amore sincero per la realtà ed ha poco o niente
in comune con l'ermetismo in voga in quegli anni. Le prime poesie di Betocchi
furono pubblicate dalla rivista bolognese “ L'orto ” . Pubblicò poi la raccolta di versi Realtà vince
il sogno (1932), cui seguì Altre poesie
nel 1939 . Nel 1939 Betocchi lascia Firenze e si
trasferisce a Trieste dove gli viene assegnata la cattedra di materie
letterarie presso il Conservatorio musicale di Venezia; tornato definitivamente
a Firenze nel 1953 insegna con le stesse mansioni presso il Conservatorio Luigi
Cherubini e continua a collaborare a varie riviste, tra cui La Chimera , La Fiera
Letteraria e L'Approdo Letterario, di cui rimane
redattore fino al dicembre del 1977, anno di cessazione della rivista. Sempre
nel 1953 veniva chiamato a far parte del Consiglio d'Amministrazione del
Gabinetto Vieusseux, in qualità di rappresentante del Comune di Firenze. Tra il
1945 e il 1965 fu redattore del programma radiofonico “ L'Approdo ” che andava in onda dalla Rai di Firenze. Nella poesia di Betocchi si avvertono talvolta
suggestioni pascoliane, il quotidiano è rivestito di significati religiosi e vi
traspare una fede di tipo naturalistico, un senso di fratellanza verso tutti
gli esseri, nei quali avverte il manifestarsi di una presenza divina. Questo lo
porta pian piano ad aprirsi verso tutte le creature “Io non voglio salvarmi
solo, deve salvarsi per l'eternità anche quell'albero, anche il cane…”,
questa come dice Contini è una sorta di “testimonianza di carità attiva
verso il creato”. Il suo è stato definito “un cristianesimo senza Cristo e
senza teologia” . Il Poeta sembra essere in attesa di una salvezza, di una vittoria
della "realtà" sul "sogno", concetto che già dall'esordio
era evocato nel titolo della sua prima raccolta Realtà vince
il sogno . Nella sua vasta produzione
troviamo sia opere di poesia che di prosa.
Liberamente
tratto Accademia Alfieri.it
I fior d’oscurità, densi, che odorano
dove tu sei, s’aggirano nell’ombra,
un’altra luce sento che m’inonda
queste pupille che l’ombra violano.
Quale tu sei, non so; forse t’adorano
le cose antiche in me, tutto circonda
te in un giardino dove i sensi all’ombra
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.
L’esser più soli, e l’aggirarsi dove
tu non sei più, od in remota stanza
dentro al mio petto, quando lento piove
l’amor di te che oltre di te s’avanza,
forse sarà per questo il dir d’amore
più dolce dell’amore che ci stanca.
Ciò che occorre è un uomo
Ciò che occorre è un uomo
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose
ciò che occorre è un uomo
un passo sicuro e tanto salda
la mano che porge, che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi e salvarsi.
Dal definitivo istante
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in spirito e verità;
non un paese, non le cose
ciò che occorre è un uomo
un passo sicuro e tanto salda
la mano che porge, che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi e salvarsi.
Dal definitivo istante
martedì 21 gennaio 2014
Lord Byron
E' l'ora
È l'ora in cui s'ode tra i rami
La nota acuta dell'usignolo;
È l'ora in cui i voti degli amanti
Sembrano dolci in ogni parola sussurrata
E i venti miti e le acque vicine
Sono musica all'orecchio solitario.
Lieve rugiada ha bagnato ogni fiore
E in cielo sono spuntate le stelle
E c'è sull'onda un azzurro più profondo
E nei Cieli quella tenebra chiara,
Dolcemente oscura e oscuramente pura,
Che segue al declino del giorno mentre
Sotto la luna il crepuscolo si perde.
È l'ora in cui s'ode tra i rami
La nota acuta dell'usignolo;
È l'ora in cui i voti degli amanti
Sembrano dolci in ogni parola sussurrata
E i venti miti e le acque vicine
Sono musica all'orecchio solitario.
Lieve rugiada ha bagnato ogni fiore
E in cielo sono spuntate le stelle
E c'è sull'onda un azzurro più profondo
E nei Cieli quella tenebra chiara,
Dolcemente oscura e oscuramente pura,
Che segue al declino del giorno mentre
Sotto la luna il crepuscolo si perde.
Immense Alpi
Sopra di me stanno le Alpi,
i palazzi della Natura, le cui immense pareti
lanciano tra le nubi pinnacoli coperti di neve,
e l'Eternità troneggia nelle caverne gelate
di fredda sublimità, dove si forma e cade
la valanga - la saetta di neve!
E tutto ciò che lo spirito emana
si raccoglie intorno a queste sommità,
per mostrare come la terra
possa toccare il cielo
lasciando in basso l'uomo
con la sua meschina superbia.
i palazzi della Natura, le cui immense pareti
lanciano tra le nubi pinnacoli coperti di neve,
e l'Eternità troneggia nelle caverne gelate
di fredda sublimità, dove si forma e cade
la valanga - la saetta di neve!
E tutto ciò che lo spirito emana
si raccoglie intorno a queste sommità,
per mostrare come la terra
possa toccare il cielo
lasciando in basso l'uomo
con la sua meschina superbia.
Vi è un piacere nei boschi inesplorati
Vi è un piacere nei boschi inesplorati
e un'estasi nelle spiagge deserte,
vi è una compagnia che nessuno può turbare
presso il mare profondo,
e una musica nel suo ruggito;
e un'estasi nelle spiagge deserte,
vi è una compagnia che nessuno può turbare
presso il mare profondo,
e una musica nel suo ruggito;
non amo meno l'uomo ma di più la natura
dopo questi colloqui dove fuggo
da quel che sono o prima sono stato
per confondermi con l'universo e lì sentire
ciò che mai posso esprimere
nè del tutto celare.
dopo questi colloqui dove fuggo
da quel che sono o prima sono stato
per confondermi con l'universo e lì sentire
ciò che mai posso esprimere
nè del tutto celare.
giovedì 16 gennaio 2014
Mario Tobino
Beato chi semplice vive
Beato il contadino,
lui lavora il campo che brilla,
nel cielo che fa festa;
beato il navigante,
lui tranquillo aspetta sulla prua
che il delfino innocente si avvicini.
Beato chi vive come il fiume
secondo che dice natura.
Beato chi semplice vive
felice per un cibo profumato
dopo la fatica del giorno.
Beato l'umile che sorride
per un'altra sera
che gli è dato di vedere,
e la notte immensa l'avvolge
e l'inonda di serena speranza.
lui lavora il campo che brilla,
nel cielo che fa festa;
beato il navigante,
lui tranquillo aspetta sulla prua
che il delfino innocente si avvicini.
Beato chi vive come il fiume
secondo che dice natura.
Beato chi semplice vive
felice per un cibo profumato
dopo la fatica del giorno.
Beato l'umile che sorride
per un'altra sera
che gli è dato di vedere,
e la notte immensa l'avvolge
e l'inonda di serena speranza.
mercoledì 8 gennaio 2014
Ingannevoli finzioni
Come una pozza d’acqua fangosa
sogno di contenere una briciola
d’immenso cielo azzurro
terso
Fingo di non sapere
che è solo
un riverbero
tra foglie bagnate e
scivolose
Arcangela
martedì 7 gennaio 2014
"Copar la vecia" per lasciarla rinascere fata e portatrice di bene
Il personaggio della befana ha origini lontane: la sua figura nasce
probabilmente nelle tradizioni agrarie pagane relative all’anno trascorso, ormai
pronto per rinascere come anno nuovo. Essa rappresenta la conclusione delle
festività natalizie come interregno tra la fine dell’anno solare (solstizio
invernale, Sol Invictus) e l’inizio dell’anno lunare. Anticamente infatti, la dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si
celebrava la morte e la rinascita della natura, attraverso la figura pagana di
Madre Natura. I Romani credevano che in queste dodici notti, figure femminili volassero sui campi appena
seminati per propiziare i raccolti futuri. A guidarle secondo alcuni era
Diana, dea lunare legata alla vegetazione, secondo altri, una divinità minore
chiamata Satia (sazietà) o Abundia (abbondanza). Presto la Chiesa condannò con estremo
rigore tali credenze, definendole frutto di influenze sataniche, ma ugualmente
da esse ebbero origine molte personificazioni che sfociano nel Medioevo nella
nostra Befana, il cui aspetto, benché benevolo, è chiaramente imparentato con
la personificazione della strega. L’aspetto
da vecchia sarebbe dunque una raffigurazione
dell’anno vecchio: una volta concluso, lo si può bruciare così come
accadeva (e accade ancora) in molti paesi europei, dove vige la tradizione di
bruciare fantocci, con indosso abiti logori, all’inizio dell’anno. In
quest’ottica l’uso dei doni
assumerebbe un valore propiziatorio per
l’anno nuovo. Un’ipotesi è che l’usanza possa essere collegata alla
festa romana che si svolgeva all’inizio dell’anno in onore di Giano e di
Strenia, durante la quale si scambiavano regali. Nessun
regalo invece è contemplato oggi per i bambini che non si sono comportati bene
durante l’anno: al posto di dolci e regali, la befana recherà loro solo carbone! Ma perché proprio il carbone?
Secondo alcuni studiosi, simboleggerebbe tradizionalmente l’energia presente nel ventre della Terra,
il fuoco nascosto, pronto a rivivere, acceso dal primo sole primaverile. Legata
a questo significato la tradizione celtica di scendere per le strade, allo
scoccare della mezzanotte che inaugurava il nuovo anno, donandosi pezzi di
carbone. Si potrebbe quindi dedurre che la simbologia del carbone, associata
all’arrivo del nuovo anno, sia una reminiscenza Celtica, poi cristianizzata in
chiave strettamente morale. L’uso del carbone ha infatti oggi assunto
tutt’altra simbologia: diviene immagine
del peccato che annerisce l’anima, esso vuol essere un castigo e un monito, che ha una
funzione educativa per l’infanzia e che attribuirebbe alla Befana un ruolo
marcatamente punitivo, originariamente del tutto estraneo alla sua figura. La Befana nulla aveva infatti
a che vedere con l’odierno significato religioso; intimamente legata ai cicli
della vita agreste, la sua più plausibile origine è rintracciabile nella
personificazione di Madre Natura, che, lungi dalla funzione moralizzante e
punitiva, giunta alla fine dell’anno invecchiata e avvizzita, offre in regalo i
semi da cui lei rinascerà bambina.
Liberamente tratto da
Leonardo.it
lunedì 6 gennaio 2014
4° Poetry slam Sangemini : foto
Organizzato dalla Bcsg Biblioteca San Gemini, il 3 Gennaio si è svolto presso la sala multimediale Santa Maria Maddalena, il 4° Poetry slam. Una gara tra gli oltre quindici autori partecipanti, Bella, Convincente, Sorprendente e soprattutto Giovane.
Secondo da sinistra il vincitore Alessandro Labianca
Primo da sinistra, il secondo classificato Giovanni Tasca
giovedì 2 gennaio 2014
Il primo gennaio di Eugenio Montale
So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzufino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.
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