mercoledì 27 marzo 2013

Alfred de Vigny





Figura isolata di poeta-filosofo, oltre che di narratore e drammaturgo, fu tuttavia testimone delle tematiche romantiche, indagando e meditando sulla condizione umana. Nato a Loches in una famiglia di antica nobiltà, dopo un'infanzia solitaria studiò a Parigi, preparandosi alla carriera militare. Nel 1814 ottenne il grado di sottotenente, ma la monotonia della vita di guarnigione lo deluse profondamente. Nel 1820 conobbe Victor Hugo e si accostò al gruppo dei romantici. La vita militare gli lasciava molto tempo per leggere e meditare; i primi versi, Poesie, apparvero nel 1822. Nel 1824 il poeta ottenne un congedo, che diverrà definitivo nel 1827. Nel 1825 sposò l'inglese Lydia Bunbury e si stabilì a Parigi. Non fu però un matrimonio felice, anche a causa delle malferme condizioni di salute della moglie, che si adattò con difficoltà a vivere in Francia. Libero dagli impegni nell'esercito, si dedicò interamente alla letteratura. Sul finire degli anni '30 il poeta cominciò a trascorrere lunghi periodi in campagna. L'indole solitaria, la tendenza all'autoesclusione, il profondo pessimismo si tradussero in un atteggiamento ostile e altero, se non addirittura sprezzante. A partire dal 1842 la sua candidatura all'Académie française fu rifiutata cinque volte, e finalmente accolta nel 1845. Dopo la rivoluzione del 1848, si presentò senza fortuna alle elezioni. Amareggiato, si ritirò definitivamente nel suo castello al Maine-Giraud, nella Charente, conducendo un'esistenza solitaria tutta dedicata alla creazione poetica. La prima raccolta poetica organica uscì nel 1826, con il titolo di Poemi antichi e moderni. L'edizione inglobava i Poemi del 1822; in seguito ne pubblicò altre due edizioni accresciute (1829, 1837). Divisa in tre parti, Libro mistico, Libro antico, Libro moderno, la raccolta comprende alcuni dei componimenti più significativi di Vigny e affronta già le tematiche essenziali della sua opera ­ la solitudine del genio, la sofferenza dell'umanità sottomessa a forze cieche e crudeli ­ risolte in immagini e figure simboliche. Esemplare il celebre poema Moïse (1822), imperniato sull'infelicità del genio, il quale coglie con angosciosa lucidità la propria solitudine e accetta eroicamente il proprio destino. L'ispirazione filosofica della poesia di Vigny si esprime appieno nell'opera della maturità, I destini, 1864 postumo  attraverso figure emblematiche, il poeta approfondisce la meditazione sulla condizione umana e comunica un messaggio morale che fonde pessimismo e fede nell'umanità. Di fronte all'irrimediabile infelicità dell'uomo, abbandonato da una divinità indifferente, Vigny rifiuta la disperazione come la credulità e perviene a una lucida saggezza. Il romanzo Cinq-mars (1826) si inserisce nel genere allora in voga del romanzo storico alla Walter Scott, con qualche concessione al romanzo gotico e al melodramma; la ricostruzione storica è finalizzata all'affermazione di una tesi, ovvero la difesa della nobiltà francese oppressa da Richelieu. Il romanzo Stello (1832) affronta il tema, squisitamente romantico, della maledizione che pesa sul genio divino del poeta, tema che verrà in seguito ripreso da Baudelaire e da Verlaine. Il poeta è solo, incompreso, destinato al disprezzo degli uomini, e tuttavia, in una "santa solitudine", egli deve orgogliosamente compiere la sua alta missione. Da un episodio del romanzo Vigny trasse uno dei migliori drammi romantici, Chatterton (1835), che rappresenta l'estremo rifiuto di ogni compromesso da parte del poeta. Nel 1835 scrisse un'altra opera narrativa, Servitù e grandezza militari, intesa a completare la trilogia a difesa dei "paria" della società, il nobile, il poeta, il soldato. L'opera in prosa, concepita da lui come un "poema epico sulla disillusione", ripropone i limiti della sua poesia, ovvero l'asservimento del mezzo espressivo all'idea da comunicare, la scarsa autonomia concessa alla poesia rispetto al discorso concettuale.
                                                                                    Liberamente tratta da Sapere.it
                                                              ***
La morte del lupo
Ahimè! pensai, seppur uomini ci chiamiamo,
quanto di noi ho vergogna, deboli come siamo!
Come lasciar la vita e tutti i suoi mali
voi solo lo sapete, mirabili animali!
Nel veder quel che nel mondo fummo, e quanto si lascia in questo,
grande solo è il silenzio; debolezza tutto il resto.
― Ah! T'ho ben capito, mio selvaggio viaggiatore,
e l'estremo sguardo tuo m'è sceso fino al cuore!
Diceva: «Se riesci, fa' che l'animo tuo austero,
anni ed anni trascorrendo nello studio e nel pensiero,
giunga a quest'alta vetta di Stoica fierezza,
che, pur nato fra i boschi, subito toccai con destrezza.
Gemere, lacrimare, pregare è sempre vile.
― Adempi l'aspro tuo dovere, sii virile
nella via in cui la Sorte ti volle chiamare,
e alfin soffri e muori al par di me, senza parlare».


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